Questo racconto è stato ispirato dalla vicenda di Giulio Regeni, giovane ricercatore friulano di Cambridge, assassinato in Egitto agli inizi di febbraio 2016. Puoi votarlo per il Premio Racconti nella rete 2017 all’indirizzo: http://www.raccontinellarete.it/?p=29298

La protagonista è una giornalista freelance. Mentre una sera si appresta a cenare con la famiglia, il marito Antonio e la figlia Tania, riceve dal direttore del suo giornale l’incarico di scrivere entro l’ora di chiusura del numero un pezzo su Giulio Regeni. Sotto pressione, non riesce a trovare uno spunto per l’articolo. Decide di cenare e riprendere dopo, e parlando durante la cena ricorda il paese di origine di Giulio, Fiumicello, non lontano dai luoghi di origine di Antonio. Leggi la parte #1 e la parte #2.

 

#3

Mi viene in mente che Regeni era di un paesino della bassa friulana.

– Com’è che si chiama quel posto? – chiedo ad Antonio.

– Fiumicello. Mia nonna era di lì.

– Ecco dove l’avevo già sentito.

– Anche la tua nonna era ricercatore? – chiede Tania.

– Ricercatrice, casomai. No, lei cercava solo un po’ di tranquillità e un lavoro.

– Allora era sì una ricercatrice. Cercava.

– Vabbè, se intendi questo lo siamo tutti. No, un ricercatore cerca cose speciali, i dettagli che non si vedono, i segreti. Li mette assieme e poi li pubblica, così tutti li possono leggere e conoscere.

– E quando ha finito di cercare?

– Cerca altre cose. Il mondo è pieno di cose da scoprire.

Tania si troverebbe bene lì. Il Friuli è un posto ordinato, dove abita gente molto precisa, metodica, e parecchio testarda. Certo, è vero anche di altri posti, mica è un’esclusiva. Ma lì, vicino ai confini, è un modo di vivere particolarmente temprato dalle guerre e dal tempo. La cosa curiosa è la creatività delle persone, riesce a esprimersi solo in segreto e in modi che rasentano l’ossessione e la follia. L’anticonvenzionale in un contesto difficile partorisce strani risultati. Joyce aveva iniziato a scrivere l’Ulisse a Trieste, dove ha vissuto 10 anni (parlava piuttosto bene il triestino, dicono), e Michelstaedter si era sparato a 23 in una soffitta di Gorizia dopo aver stabilito con certezza di aver compreso la verità ultima del mondo.

Antonio viene da quei posti, ci siamo incontrati a Trieste perché io volevo fare l’interprete ma non sono entrata alla Scuola – forse per quello mi irritano le sue frasette da prof di lingue – e ho ripiegato su scienze della comunicazione a Bologna.

– Fiumicello però è sul confine. – aggiunge dopo un po’.

– Ma no, sarà a 30 km – l’ho già trovato sulle mappe.

– Ma non il confine di stato. Mica c’è solo quel confine, lì. È al confine linguistico, vicino all’Isonzo e verso il mare. Si parla un friulano bastardo, è mescolato al bisiaco di Monfalcone, che è una lingua veneta, e a un po’ d’influenza di Grado, che ha il suo antico dialetto isolano diverso da tutti gli altri. Mia nonna li parlava tutti e tre.

– E vabbè. E allora?

– Vuol dire che prima c’era il confine dell’Impero austro-ungarico, cent’anni fa. Passava lì vicino. Non c’è più ma ha lasciato il segno. In quei posti i confini sono dappertutto, dovresti saperlo.

Già, dovrei saperlo. In effetti è una cosa che mi ha sempre dato fastidio e che per questo ho sempre rifiutato di approfondire. Il problema è che i confini ce li avevano nel cervello, pensavo. Però dove c’è un confine c’è sempre anche un centro. E quali sono i centri, oggi? Quali erano cent’anni fa? Roma e Vienna? Ma guarda un po’.

Me li immagino, questi contadini del confine del 1915 senza neanche gli occhi per piangere che si vedono arrivare le truppe inviate da Roma e da Vienna. Prima gli italiani, che sfondano verso la sacra Gorizia e l’eldorado di Trieste. Poi gli austriaci, che si riprendono ciò che era loro, la principesca contea proprietà personale del Re e Imperatore e il porto franco. Poi di nuovo gli italiani. Loro sì che potevano dire di essersi svegliati e di aver trovato l’invasor. Ma l’invasor era sempre diverso.

– A cosa stai pensando? – mi chiede Antonio, vedendomi assorta a fissare il muro sopra lo schermo.

– Stavo pensando alla guerra.

– Quale guerra?

– La guerra in generale. Fa schifo. Il partigiano di Bella Ciao è un eroe, vero? Eppure chissà quanti tedeschi invasor ha macellato prima di finire sepolto in montagna sotto l’ombra di un bel fior. Degli eroi si ricordano solo le cose belle, ma se sono diventati eroi è evidente che le circostanze facevano talmente schifo da non potere fare altrimenti.

– Be’, si sa. Nel racconto diventa tutto più bello, mica puoi dire in ottava rima che Orlando si ferma in battaglia per scaccolarsi. Anche l’Eneide s’inventa di sana pianta degli episodi eroici per nobilitare la nascita dell’Impero romano. Ma Ottaviano aveva semplicemente preso il potere facendo fuori Antonio e Cleopatra.

Impero, impero, impero. Perché ricorre sempre questa parola? Perché questa smania di potere? Anche Al Sisi, mica che anche lui vuole rifare un impero, come quello dei Faraoni? Forse voleva vendicarsi di quello spiacevole episodio di Cleopatra di 2000 anni fa? Sto scivolando nel mito, manca un’ora alla consegna e non ho scritto una riga.

– Allora, ti ho dato lo spunto per un taglio?

– Sì, sarà breve – per forza, non ho tempo.

– Questa è una battuta che farei io. Ma Tania dov’è?

– Si è addormentata sul divano, a forza di sentire queste storie di imperi.

Chissà, forse sta sognando la favola del ricercatore che va in giro per il mondo a cercare segreti per poi fare la sua pubblicazione. M’immagino la storia:

C’era una volta un ricercatore.

Era nato ai confini del grande impero dell’Austria Felix, un impero che si era estinto centro anni prima, dove un tempo si dice che tutti fossero felici. Anche oggi in quelle terre sono tutti piuttosto felici, anche se nel frattempo sono passate due guerre e una grande devastazione.

 

[Continua…Leggi il finale nella parte #4]

[foto: The Darkroom, Baltimore Sun]