Sul Post del 2 novembre 2016 è uscito un bell’articolo di Giacomo Papi, “La solitudine dei traduttori”.
Fa un ottimo servizio alla categoria cui appartengo perché parla nel dettaglio di un lavoro cui spesso non si pensa ma che è fondamentale. L’Unione Europea non funzionerebbe senza traduttori e pochi potrebbero leggere i tantissimi testi stranieri pubblicati in Italia in traduzione.
L’autore è figlio di un traduttore, uno che ha avuto in casa questo animale misterioso. Racconta di come si lavorava una volta, sommersi da pile di scartoffie e perennemente con la sigaretta in bocca come gli investigatori degli hard-boiled più triti.
È un ottimo articolo anche perché fa conoscere ai lettori qualche nome e cognome di bravi traduttori italiani (no, io non ci sono ma ho avuto l’onore di rappresentarli quando ho fatto il segretario di Strade), e parla della nostra situazione economica critica: compensi bassi, committenti poco collaborativi quando non truffaldini, difficoltà nella programmazione del lavoro, eccetera.
Le cifre che riporta riguardano però la parte alta della classifica e si riferiscono al traduttore con potere contrattuale che prende dai 15 ai 17 euro a cartella da 1800, e che produce 100 cartelle al mese. Figura che rasenta la mitologia. Pochissimi spuntano quelle cifre (che, con qualche ristrettezza, permetterebbero sì una vita dignitosa): la maggioranza viaggia grosso modo nella fascia tra 10 e 14 a cartella da 2000 (non 1800), senza dimenticare quelli che si ritrovano ad accettare compensi anche inferiori ai 10. Forse, come la storia della carta e delle sigarette, appartiene a un tempo che non ho conosciuto e che di sicuro non conoscono i traduttori che cominciano a lavorare ora.
Vorrei anche aggiungere una cosa sulla solitudine. Questa storia dei traduttori soli ha da finire.
Non conosco gente ciarliera come i traduttori (forse gli avvocati). Non mi vengono in mente persone più attivi sui social network (forse i socialmediacosi).
I traduttori non sono soli: parlano, discutono, fanno rete, litigano come tutti ma non si può davvero più dire che facciano un mestiere solitario. Tutti i liberi professionisti, alla fine, lavorano da soli ma a nessuno è venuto in mente di mitizzare la solitudine del commercialista. Quando c’è bisogno di un consulto, il commercialista chiama il collega e così fa il traduttore. Se c’è da fare una trattativa o chiedere un chiarimento al committente, il commercialista lo contatta e così fa il traduttore. Se c’è un approfondimento da fare, il commercialista consulta la legge e il traduttore consulta i dizionari. Ma il grosso del lavoro, un libero professionista lo fa da solo. Non c’è differenza nella pratica del lavoro.
Oltretutto, oggi ci sono anche un sacco di occasioni quasi mondane per ritrovarsi, come le fiere del libro, gli eventi dedicati alla traduzione, i seminari di aggiornamento professionale. Senza parlare di quelle finestre e app sempre aperte su quei social azzurri, blu o verdolini.
Davvero, smettiamola con questa storia della solitudine. Il problema del traduttore non è che non ha qualcuno con cui parlare. Il problema è che non viene considerato un libero professionista ma una strana forma di “dipendente a piede libero” del committente e che per questo, come dice giustamente Papi, viene pagato pochissimo rispetto al lavoro altamente qualificato che fa.